Abbiamo l'opportunità di scrivere la più bella storia mai raccontata: la nostra: vogliamo farlo noi, o lasciarlo fare agli altri? A noi la scelta. A noi la scelta....
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"...Dato che stanno ancora Lavorando All'Expo, ma i collaudi delle strutture per determinarne la sicurezza, verranno fatti prima dell'inaugurazione del Primo Maggio?..."
Responsabilità civile: “Richiesta danni non comporta sostituzione magistrato”
Giustizia & Impunità
Per la prima volta la Suprema corte si pronuncia sulla riforma voluta da Renzi, La decisione dovrebbe tamponare la temuta valanga di richieste di ricusazione di giudici e pm da parte di imputati che intentano una causa civile per risarcimento danni. Il caso sorto dal ricorso di un avvocato di Pordenone. "L'istituto ha natura del tutto eccezionale"
Anche con la nuova legge sulla responsabilità delle toghe, l’azione di risarcimento dei danni “non costituisce di per sé ragione idonea e sufficiente a imporre la sostituzione del singolo magistrato”. Lo stabilisce un verdetto della Corte di cassazioneche va a “sanare” una delle maggiori criticità della riforma voluta dal governo Renzi.
Il verdetto è stato emesso dalla Sesta sezione penale, che per la prima volta ha esaminato la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, affrontando il ricorso di un avvocato sotto processo a Pordenone che aveva chiesto la ricusazione di un giudice nei confronti del quale aveva iniziato l’azione risarcitoria per colpa professionale.
Ne sono state tratte due massime di diritto. Con la prima, si è escluso che il magistrato nei confronti del quale un imputato avanzi domanda risarcitoria possa mai essere considerato “un debitore” dal momento che la domanda non è “diretta” ma è proposta nei confronti dello Stato. Con la seconda, si è esclusa la ricusazione “automatica” del magistrato la cui condotta professionale sia stato oggetto di una domanda di risarcimento.
Riguardo al primo punto, è vero che l’azione di risarcimento è sempre rivolta allo Stato e non al singolo magistrato. Ma nell’ambito della causa civile il magistrato può intervenire per esporre le proprie ragioni, e anzi è incentivato a farlo dal fatto che, in caso di condanna, in determinati casi lo Stato deve rivalersi sul magistrato stesso.
La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’avvocato di Pordenone che chiedeva di trasferire il procedimento a suo carico per furto pluriaggravato, falso per soppressione e calunnia, adducendo come motivazione “l’incompatibilità ambientale della sede di Pordenone per motivi risarcitori civili nei confronti del secondo giudice e di altri due magistrati, in servizio presso il tribunale penale di Pordenone”.
Secondo l’avvocato poichè i tre magistrati di fatto “rappresentano l’organico della sezione penale del tribunale di Pordenone”, il processo in questione non potrebbe essere celebrato nella stessa sede “perchè in ogni caso sarebbe assegnato ad uno di questi tre magistrati”. Richiesta bocciata da piazza Cavour che si è allineata alle stesse richieste avanzate dal pg Mauro Iacoviello.
La sentenza 16924 redatta da Carlo Citterio ricorda che “l’istituto della rimessione ha natura assolutamente eccezionale e non costituisce una sorta di cumulo generale e generico di ricusazioni individuali dei componenti di un intero ufficio giudiziario”.
Sicchè “quand’anche fosse ipotizzabile la ricusabilità di tutti i singoli magistrati di un medesimo ufficio giudiziario in relazione ad uno specifico procedimento”, la Cassazione ricorda che “devono essere allegate specifiche cause di ricusazione con riferimento ai singoli giudici e seguite le corrispondenti specifiche diverse procedure, senza che l’accertata infondatezza delle pertinenti doglianze nella sede propria della ricusazione possa invece fondare la reiterazione delle medesime censure nel contesto del diverso istituto della rimessione”.
Più in generale, la Cassazione, anche alla luce della nuova legge sulla responsabilità dei magistrati ricorda che “la proposizione di più azioni di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, esercitata ai sensi della legge 117/1988 e pur dopo le modifiche introdotte dalla legge 23/2015 nei confronti di più magistrati di un medesimo ufficio giudiziario, non costituisce grave situazione locale idonea ad imporre la rimessione del processo”. A scanso di equivoci, la Cassazione ricorda che non è che “la mera pluralità dei casi” possa “attribuire una consistenza che un singolo caso non possiede”.
Siamo al delirio! Xilella, scie chimiche, inquinamento, malattie, guerre, crisi, corruzione, depravazione, prevaricazione e qui si continua a dormire. Ieri sera udivo il discorso tra due giovani proiettate al mondo del lavoro con laurea e master, ma senza occupazione, fare progetti per il futuro, sognando chissà quale improbabile poltrona presso qualche istituto di ricerca, con tanto di stipendio fisso e prosecuzione della vita da zombie. Gioventù costretta sui banchi di scuola sino a età adulta, così da tenerla a debita distanza dalla realtà e ignara di cosa l’aspetta.
Povera umanità! Gli svegli sono davvero pochi. Vorrei vedere la mia Isola meravigliosa, non invasa dai Neri ma dagli Italiani svegli, così da portare un po’ di ossigeno a questa terra di desolati, e sfruttare ciò che Madre Natura ci ha fornito ma che i Sardi non hanno saputo rispettare. Vorrei vedere un’ondata di “continentali” svegli che occupa le case e terre Sarde abbandonate, pubbliche e private, alla stregua dei conquistatori americani che facevano le corse per accaparrarsi le terre migliori.
Sarei felice di sentir parlare altri dialetti di persone sveglie di tutte le regioni italiane per fare della Sardegna il Nuovo Continente, considerato che il Sardo non ne è capace! Quest’Isola si sta spopolando, lasciandosi in balia delle invasioni barbariche. Italiani, trasferitevi in massa, conquistateci, c’è spazio per tutti, non lasciate morire questo paradiso. I natii stanno abbandonando la propria terra, lasciandola in mano ai poteri centralisti malavitosi.
Chi rimane non ha gli attributi per il cambiamento del paradigma. Facciamo crescere in questa terra la Nuova Umanità, fuori dal controllo dei poteri occulti, uniamoci nell’ultimo baluardo, a difesa dell’Umanità e di questo Popolo. Facciamo davvero decollare il Tribunale e la Guardia Popolare che senza il contributo di tutti arrancherebbe. Vi invito a considerare seriamente queste poche ma accorate parole.
Cosa ci mostrano gli Uomini di sistema? La loro presunta forza, basata solo sulla coercizione e violenza, e nascondo i loro punti deboli. Nel fare ciò li mettono in bella mostra.
Violentata e torturata per giorni dai partigiani, è stata finita con un colpo di pistola alla nuca. Era il 30 aprile 1945
Ha 13 anni Giuseppina. E’ una bambina studiosa e diligente, che grazie anche all’amore della sua famiglia, fino a quei maledetti giorni di fine aprile del 1945 ha vissuto un’infanzia serena. I Ghersi sono proprietari di un piccolo negozio di frutta e verdura in quel di Savona e quando i partigiani si presentano alla porta della loro casa chiedendo materiale di medicazione, il padre di Giuseppina non esita a fornire loro tutto quello che riesce a mettere insieme. E’ il pomeriggio del 25 aprile. Il giorno successivo i coniugi Ghersi si recano, come di consueto, al loro negozio. Ma vengono fermati per la strada da due partigiani armati, che li portano al Campo di concentramento di Legino. Poco dopo vengono arrestati anche gli altri componenti della famiglia tranne la piccola Giuseppina, in quel periodo ospite di alcuni amici. Non c’è quindi più nessuno che possa testimoniare contro coloro che, indisturbati, depredano il negozio e la casa dei malcapitati.
Nel frattempo i Ghersi chiedono ai partigiani i motivi della loro detenzione e viene loro risposto che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di interrogare anche la loro figlia che, vincitrice di un concorso, aveva ricevuto una lettera con i complimenti del Segretario particolare del Duce. In realtà credono che sia una spia al servizio del regime fascista. Convinti della buona fede di chi li aveva arrestati, i coniugi accettano di essere accompagnati a prendere la piccola. Ma quando tornano al Campo di concentramento, si consuma un dramma che ancora oggi suscita orrore e disgusto: Giuseppina e la sua mamma vengono infatti stuprate e ripetutamente picchiate ed il papà è costretto ad assistere allo “spettacolo” e anche lui viene percosso su schiena e testa con il calcio di un fucile. Per tutta la durata della violenza, gli aguzzini, non contenti di quello che avevano già razziato, gli chiedono più volte di rivelare il nascondiglio di altro denaro e preziosi. Alla fine di quella terribile giornata, i coniugi Ghersi vengono condotti al Comando partigiano locale che, nonostante a loro carico non fosse emerso nulla, li rinchiude in carcere.
Per Giuseppina, rimasta sola nelle mani di quelle belve, si consumano purtroppo altri giorni di atroci sofferenze. Che hanno termine il 30 aprile 1945, quando viene finita con un colpo di pistola e gettata su un mucchio di altri cadaveri davanti alle mura del Cimitero di Zinola. Qui viene notata da un signore, che descrive la visione di quel piccolo corpo martoriato con parole tremende: “Era un cadavere di donna molto giovane – scrive Stelvio Murialdo – ed erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta. Evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei. L’orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue con un occhio bluastro tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno”.
La vicenda di Giuseppina Ghersi è stata dettagliatamente ricostruita grazie alla coraggiosa pazienza del papà, che il 29 aprile 1949 ha presentato al Procuratore della Repubblica di Savona un esposto di sei pagine scritte a mano. Pagine che molto probabilmente non riescono a rendere la tremenda sofferenza patita da quella bambina, la cui storia è drammaticamente simile a tante altre, generate da un odio cieco e disumano che ancora oggi alcuni tendono a giustificare, mascherandolo da “azione di guerra giusta e necessaria per combattere il nazifascismo”. Per fortuna c’è però chi vuole ricordare quanto accaduto con onestà e rispetto per la verità. Tra essi, i promotori di una mozione presentata in alcuni Municipi della Capitale, in cui si afferma la necessità che questi “terribili fatti legati alla guerra siano conosciuti e di monito a tutte le generazioni future, affinché se ne tragga un insegnamento: che lo strumento dell’odio deve essere superato. Al di là del colore politico – si legge infine nel documento pubblicato da Roma.it – una sola tinta si presta a connotare il racconto: il rosso del sangue dei martiri di tutti i tempi, assieme al bianco dell’innocenza e al verde della speranza. Speranza che si riscriva la storia, che sia fatta giustizia”. Senza più odio, nel rispetto della verità e della pace.
Un secolo fa le vittime dei naufragi erano italiani emigranti in America
Tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento sette milioni e mezzo di nostri connazionali si imbarcarono su navi fatiscenti diretti in America. E molti pagarono con il sangue il sogno di una vita migliore
Nel corso degli ultimi vent'anni il fenomeno dell'immigrazione di massa verso l'italia ha raggiunto dimensioni impressionanti, e impressionante è anche il tributo di sangue pagato nel viaggio verso l'"Eldorado Europa". Secondo Fortress Europe, osservatorio sulle vittime dell'immigrazione, tra il 1988 e il 2008 almeno 12.012 persone hanno perso la vita tentando di raggiungere clandestinamente il Vecchio Continente. E nel solo Canale di Sicilia i morti sono stati 2.511.
E se per tentare di arginare il fenomeno, oltre alle leggi come la Bossi-Fini e alle operazioni internazionali come Mare Nostrum, c'è chi propone di "aiutare i clandestini a casa loro", chi ha chiesto un blocco navale e chi ha addirittura proposto di cannoneggiare le carrette del mare che trasportano i migranti diretti in Italia, spesso ci si dimentica che un secolo fa erano proprio gli italiani a imbarcarsi sulle carrette del mare per raggiungere la "terra promessa", l'America. E oggi come allora, il viaggio verso il miraggio di una vita migliore si pagava con il sangue.
L'emigrazione di massa - Dal 1876 al 1915 furono ben 14 milioni gli italiani che, armati solo di speranza e di una valigia di cartone, lasciarono tutto per cercare fortuna altrove. E se per i primi 10 anni il viaggio era più semplice, perché la destinazione preferita era l'Europa, a partire dal 1886 gli italiani cominciarono a imbarcarsi per raggiungere l'America: nei quarant'anni dell'emigrazione di massa, 7 milioni e 600mila italiani attraversarono l'Atlantico diretti inizialmente in Argentina e poi anche in Brasile e Stati Uniti.
I vascelli della morte - La traversata avveniva, se possibile, in condizioni addirittura peggiori di quelle che oggi si riscontrano quotidianamente sulle barchette che partono dalla Libia dirette verso Lampedusa: secondo il Museo nazionale dell'emigrazione italiana, "al trasporto dei migranti sono assegnate le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si tratta di piroscafi in disarmo, chiamati 'vascelli della morte', che non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano più di 1.000, che partivano senza la certezza di arrivare a destinazione".
I vascelli fantasma - Quando anche vi arrivavano, spesso parte della "merce" arrivava ormai senza vita a causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie, trasformando la nave in quello che veniva definito "vascello fantasma": il Museo nazionale dell'emigrazione riporta come sul piroscafo "Città di Torino" nel novembre 1905 ci furono 45 morti su 600 imbarcati; sul "Matteo Brazzo" nel 1884 20 morti di colera su 1.333 passeggeri (la nave venne poi respinta a cannonate a Montevideo per il timore di contagio); sul "Carlo Raggio" 18 morti per fame nel 1888 e 206 morti di malattia nel 1894; sul "Cachar" 34 morti per fame e asfissia nel 1888; sul "Frisia" nel 1889 27 morti per asfissia e più di 300 malati; sul "Parà" nel 1889 34 morti di morbillo; sul "Remo" 96 morti per colera e difterite nel 1893; sull’"Andrea Doria" 159 morti su 1.317 emigranti nel 1894; sul "Vincenzo Florio" 20 morti sempre nel 1894.
Le tragedie del mare - Le pessime condizioni delle imbarcazioni utilizzate per trasportare la "tonnellata umana", come veniva chiamato il carico di emigranti, anche un secolo fa provocavano spesso sciagure come quella avvenuta al largo della Libia: 576 italiani (quasi tutti meridionali) morti il 17 marzo 1891 nel naufragio dell'"Utopia" davanti al porto di Gibilterra; 549 morti (moltissimi dei quali italiani) nella tragedia del "Bourgogne" al largo della Nuova Scozia il 4 luglio 1898; 550 emigrati italiani vittime, il 4 agosto 1906, del naufragio del "Sirio" in Spagna; 314 morti (secondo la conta ufficiale, ma per i brasiliani le vittime furono più di 600) nel naufragio della "Principessa Mafalda" il 25 ottobre 1927 al largo del Brasile.
Il naufragio della "Principessa Mafalda" - Proprio quella della "Principessa Mafalda" è la peggior sciagura che abbia mai colpito gli emigranti italiani. Varata il 22 ottobre 1908 ed entrata in servizio il 20 marzo 1909, era l'ammiraglia della flotta del Lloyd italiano (assorbito poi nel 1918 nella Navigazione Generale Italiana) e il più prestigioso piroscafo tricolore, invidiato dalle compagnie di navigazione del resto d'Europa sia per i lussuosissimi arredi della prima classe, sia per il salone delle feste esteso, per la prima volta nella storia della navigazione, in verticale su due ponti. E anche la terza classe era stata concepita in modo innovativo, con ampi stanzoni muniti di servizi igienici capaci di ospitare fino a 1.200 passeggeri, generalmente migranti. In occasione dell'ultimo viaggio prima del disarmo e dello smantellamento, la nave partì da Genova l'11 ottobre 1927 con a bordo 1.259 persone, tra le quali diversi migranti siriani ma soprattutto numerosi emigranti piemontesi, liguri e veneti. Il piroscafo, che secondo la società armatrice era in perfette condizioni, in realtà non era più considerato sicuro dagli addetti ai lavori dopo vent'anni di scarsa manutenzione e di usura. Tanto che, solo nel tratto di Mediterraneo verso Gibilterra, la nave subì 8 guasti ai motori, uno alla pompa di un aspiratore, uno all'asse dell'elica di sinistra, uno alle celle frigorifere.
Dopo una navigazione relativamente tranquilla nell'Atlantico, e nonostante il comandante, a causa di continue vibrazioni al motore di sinistra, avesse inutilmente chiesto alla compagnia di trasbordare i passeggeri su un altro transatlantico, il 25 ottobre la nave era a 80 miglia al largo della costa del Brasile, tra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro. La "Principessa Mafalda" procedeva a velocità ridotta e visibilmente inclinata verso sinistra, quando alle 17.10 venne percepita una forte scossa: l'asse dell'elica sinistra si era sfilato e, continuando a ruotare per inerzia, aveva provocato un enorme squarcio nello scafo. E l'acqua, dopo aver allagato la sala macchine, invase anche la stiva poiché le porte stagne non funzionavano correttamente.
Lanciato l'SOS, le navi accorse si fermarono però a distanza temendo che la caldaia del piroscafo italiano potesse esplodere, e non fu possibile comunicare loro che il pericolo era stato scongiurato aprendo le valvole del vapore perché l'unico generatore di corrente presente a bordo era stato danneggiato dall'acqua impedendo così l'uso del telegrafo. Poco dopo le 22, quando la nave restò completamente al buio, a bordo scoppiò il panico: il capitano fece calare le scialuppe di salvataggio, ma a causa dell'inclinazione a sinistra quelle di dritta colpirono lo scafo andando in pezzi. Di quelle calate in mare, molte erano danneggiate e imbarcavano acqua; altre vennero prese d'assalto e si ribaltarono. Molti passeggeri si tuffarono cercando di raggiungere a nuoto le navi di soccorso, e alcuni di loro vennero divorati dagli squali; mentre altri si suicidarono, sparandosi pur di non morire annegati.
Secondo i dati ufficiali forniti dalle autorità italiane (le quali - si era in pieno regime fascista - minimizzarono il disastro, parlando inizialmente di poche decine di vittime solo tra l'equipaggio) i morti furono 314, ma i sudamericani diedero un numero di morti più che doppio, ben 657. Ancor oggi, però, non è chiaro quanti furono i migranti italiani che persero la vita a bordo del "Titanic italiano", una carretta del mare sulla quale si erano imbarcati sognando un futuro migliore.
Caro, Salvini e Tutti i Politici, devo dire che se parlassi di argomenti Seri, invece di Rompere le Palle con la chi vuole Vivere, andresti al Governo Ieri.
Radamenes è davvero un gatto speciale. Questo piccolo micio nero aiuta come un vero e proprio infermerie gli animali ricoverati presso il centro veterinario di Bydgoszcz, in Polonia. Dopo essere stato salvato sa una gravissima infezione respiratoria che lo aveva ridotto in fin di vita, sembra stia restituendo il favore con coccole, massaggi e pulizie agli altri ospiti pelosi convalescenti, feriti e operati.
Radamenes per questo è diventata un'attrazione locale e la gente ha iniziato a fargli visita presso il centro credendo che porti fortuna (alla faccia di chi crede che i gatti neri portino invece sfortuna)! Tutto è iniziato quando è stato recuperato: era affetto da una grave infezione delle vie respiratorie superiori che lo avrebbe presto ucciso.
Data l'estensione della malattia, i veterinari hanno pensato di praticare l'eutanasia per porre fine alla sua sofferenza, ma poi Radamenes ha iniziato a fare le fusa. Con questo, i medici si resero conto che non era pronto a rinunciare alla vita, così hanno scelto di iniziare il trattamento. E lui ce l'ha fatta. Una volta riacquistate le forze, ha iniziato a fare amicizia con gli altri animali del rifugio. Il personale ha notato da subito che era particolarmente amante degli animali che avevano appena subito interventi chirurgici o trattamenti medici. Radamenes li abbracciava e si prendeva cura di loro proprio come un'infermiere avrebbe fatto. A volte, quando sei malato, tutto ciò che serve è una carezza o un abbraccio caldo. E Radamenes sembra saperlo.